Qualche
tempo fa accadde che trovai in un luogo remoto un antichissimo codice
redatto da un popolo sconosciuto. Non sapendo tradurre lo scritto né
tanto meno leggere quello strano alfabeto ma essendo curiosa di
sapere cosa esso celava, decisi di rivolgermi ad un esperto di lingue
antiche. Inviai dunque il documento ad uno studioso cinese che lavorò
su di esso per alcuni mesi. Decifrò il testo e lo tradusse poi nella
sua lingua in maniera piuttosto letterale, modificando piccolissimi
particolari in modo tale da rendere alcuni passaggi – soprattutto
quelli simbolici o metaforici – più comprensibili secondo la sua
cultura. Tenne per sé il testo originale e mi inviò quello tradotto
in cinese.
Purtroppo
non conosco il cinese, per cui dovetti far tradurre quella
traduzione.
L’unica
persona in grado di comprendere il cinese che riuscii a contattare,
all’epoca, fu un indiano. Esso prese con sé il testo cinese,
traduzione lievemente corrotta dell’antico codice, e lo tradusse
nella sua lingua. Anch’egli, non comprendendo appieno il
significato di alcune metafore e non trovando il senso di alcune
simbologie, le mutò per renderle più accessibili secondo la sua
cultura. Tenne per sé il testo cinese e mi restituì quello in
sanscrito.
Non
conoscendo neanche il sanscrito, dovetti far tradurre d’accapo il
testo.
Uno
studioso arabo prese con sé il testo sanscrito e lo tradusse nella
sua lingua, modificando anch’egli simboli e metafore per renderli
chiari secondo la sua cultura.
Non
conoscendo l’arabo, affidai il testo ad uno studioso greco che però
lo tradusse nella sua lingua e secondo la sua cultura.
Dal
greco, il testo venne poi tradotto in inglese, ove le metafore e le
simbologie mutarono ancora un poco e da lì, finalmente, ottenni la
traduzione italiana che potei dunque leggere.
Ciò
che ebbi tra le mani era però la reale
traduzione dell’antico e sconosciuto codice o l’interpretazione
di una interpretazione di una interpretazione e così via? Ovvero:
avrei mai potuto comprendere appieno il vero significato simbolico
contenuto nelle metafore o ne avrei avuto una traduzione corrotta e
guastata dall’influenza culturale di tutti quegli uomini che
avevano messo mano al testo?
Ovviamente
la seconda.
La
stessa cosa accade quando si parla di concetti metafisici. La pretesa
di giungere ad una verità partendo però da ciò che altri hanno
scritto intorno a tali concetti è essenzialmente errata. Basta
infatti un solo errore, una sola interpretazione sbagliata, una sola
metafora mal compresa per alterare irrimediabilmente il senso delle
cose.
Ciò
accade anche con le frasi più semplici che, se mal tradotte o male
interpretate, finiscono per significare addirittura l’opposto di
ciò che in realtà si voleva dire.
Ad
esempio: la sottoscritta si annoia indicibilmente nel discutere con
una persona inglese e, sottovoce, dice di lui in italiano che “è
una palla”. L’inglese in questione traduce mentalmente questa
frase “you are a ball”, la intende in senso letterale, e pensa di
conseguenza che ho le rotelle fuori posto. È ovvio che il tizio non
è una palla ma una persona! Questo è il primo caso di una
traduzione scorretta. Se poi volessimo aggiungere che il tizio
inglese ha una concezione pitagorica della vita, in tal caso l’essere
definito “una palla” ovvero “una sfera”, lo porterebbe a
credere che la sottoscritta ha inteso dire di lui che “è
perfetto”. Ed ecco come un “sei noioso” si trasforma in “sei
perfetto”.
In
via definitiva, non si può pensare di giungere all’esatta natura
delle cose partendo dall’interpretazione che diverse culture hanno
avuto di quelle medesime cose. Bisogna prima liberarsi dell’influenza
culturale, fare il vuoto nella mente, cancellare completamente tali
concetti per poi tentare – spesso fallendo ma sapendo
di essere fallibili – di comprenderli nella maniera più neutrale
possibile. Come? Nella maniera più socratica possibile.
Io
so di non sapere. E so che anche gli altri non sanno. So però che
posso osservare e so di avere una mente in grado di elaborare i
concetti. So che potrei sapere se solo smettessi di sapere ciò che
altri mi hanno detto che dovrei sapere. So che posso sapere solo se
non so nulla.
Poco
me ne cala, in parole povere, di ciò che eminenti studiosi hanno tra
virgolette scoperto o compreso perché so, e non può essere negato,
che tali scoperte partono sempre e solo da rielaborazioni di pensieri
più antichi i quali, a loro volta, sono stati influenzati da
elaborazioni precedenti che forse, chissà dove, nascondono un
singolo, invisibile frammento di una verità più grande.
Immaginando
che in tempi remotissimi un popolo fosse realmente in possesso di una
verità assoluta, quanta di questa verità è giunta incorrotta fino
a noi? Esattamente come il testo antico del primo esempio: ben poca.
Il più si è perso o è stato alterato a tal punto da risultare
incomprensibile o, peggio, fuorviante.
La
prova evidente di ciò risiede tra le pagine di diversi libri che ho
in questi anni preso in esame: poche verità immerse in una marea di
– perdonatemi – cavolate evidentemente di chiara matrice
cristiana che, di per sé, riassume elementi ellenici provenienti non
solo dal contatto dei primi cristiani con Roma stessa ma persino
portati alla fu nuova religione dalla più “vecchia” ebraica il
cui popolo, in tempi remoti, prese in sé elementi greci, persiani,
assiri e babilonesi; questi ultimi avevano già reinterpretato
concetti e simboli sumeri, già presenti nell’ebraismo originario
mentre l’influenza persiana si riscontra nel dualismo bene-male
presente in massima parte nel cristianesimo e in minima parte nei
posteriori concetti cabalistici ebraici. Il risultato? Un
guazzabuglio di idee contrastanti che sempre più si allontanano
dalla realtà dei fatti.
Partendo
da questa macedonia di idee, preconcetti e rielaborazioni, moltissimi
eruditi hanno la pretesa di giungere alla verità finale. Assurda
speranza, oserei dire. Almeno, finché tutte
le cose dette in passato vengono prese per buone nel presente.
Ovvero, finché concetti chiave vengono copiati o reinterpretati
invece di essere più logicamente spogliati di ogni valenza culturale
per essere meglio compresi. Un po’ come il povero Tolomeo che tentò
di spiegare il moto dei pianeti partendo dall’idea di Aristotele.
Se avesse saputo che Aristotele aveva dato più peso ad una boiata
piuttosto che ad una verità, probabilmente secoli di falsi
insegnamenti sarebbero stati risparmiati al genere umano e Galileo
non si sarebbe ritrovato davanti al tribunale dell’Inquisizione per
abiurare. E scusate se è poco.
Purtroppo,
partire dal nulla assoluto davvero non si può. In un modo o
nell’altro si finisce sempre per ragionare attorno a ciò che è
stato detto da altri, a riflettere su concetti preesistenti, a
ricercare la luce della verità in mezzo agli abissi delle leggende
popolari. E ogni leggenda, per quanto assurda sia, ha in se un
minuscolo seme di verità.
Uno
dei testi maggiormente presi in esame è senza dubbio la Bibbia.
Scritto
da un popolo semita che ha subìto influenze sumeriche ed egizie in
un primo tempo, che ha reinterpretato concetti ellenici (dunque
greci, persiani e indiani in massima parte) in un secondo tempo, che
ha rielaborato mitologie babilonesi nella sua fase “finale”, tale
libro è poi passato sotto il “dominio” e la “revisione” di
una società tendenzialmente politeista che riuniva in sé concetti
dualistici di chiara matrice zoroastriana come la dicotomia bene-male
non riscontrabile in alcun modo in tutto l’Antico Testamento, è
forse il testo più corrotto a causa delle svariate traduzioni, più
complesso a causa dei suoi simbolismi, più antico in quanto porta
con sé frammenti di idee appartenenti alle prime culture umane, più
studiato e meno compreso di tutti. Una vera sfida riuscire a trarne
qualcosa di sensato... sempre se non si vuole dare credito a tutto
quello che è stato già detto.
Se
si volesse dar credito alle narrazioni bibliche del Nuovo Testamento
si dovrebbe credere che oltre una divinità creatrice ritenuta
“onnipotente” e “assolutamente buona” ne esista una
ugualmente forte ma di natura malevola.
Logicamente
impossibile.
Poniamo
il caso di un pittore che ha di fronte a sé una tela bianca e che ha
a sua disposizione solo due colori: il rosso e il blu. Con tali
colori egli decide di dipingere un paesaggio: colline, montagne,
cielo, nuvolette, prati e sole che brilla. Ora: di che colore sarà
l’erba? Sbagliato: il verde non può
esistere e neanche il sole sarà mai giallo.
Se
per puro caso quel quadro diventasse un universo a sé, chiunque
abitasse quel paesaggio potrebbe conoscere il colore giallo?
Ovviamente no, così come non possiamo conoscere l’esatta sfumatura
di un colore mai visto o il sapore di un cibo mai gustato.
Allo
stesso modo, se la divinità creatrice fosse totalmente buona,
avrebbe creato solo il bene, per cui sentimenti quali odio, invidia,
bramosia e orgoglio non solo non esisterebbero ma nemmeno potrebbero
essere pensati.
La
teoria secondo la quale una “ribellione” sarebbe all’origine
della “caduta di Lucifero” perde ogni valore logico se si vuole
credere che la divinità è solamente buona.
Alla
luce di ciò, se non si vuole rinunciare all’idea di una divinità
totalmente buona, deve per forza di cose esistere una seconda
divinità dalla quale è nato il “male”.
Ciò
pone però un problema: se la divinità creatrice è una
come affermano i testi biblici e la tradizione religiosa, allora una
seconda divinità creatrice
non può esistere; se invece si hanno due divinità creatrici
ugualmente potenti, nessuna delle due può essere “onnipotente”
perché in ogni modo l’una può contrastare l’altra.
Se
vogliamo continuare a speculare sulla letteratura biblica, direi di
sfogliare il Vecchio Testamento fino al libro dei Numeri dove, in
versione originale ebraica, al capitolo 22, ci si imbatte per la
primissima volta in un termine noto alla cultura cristiana: “Satan”.
Il bello qui è leggere cosa
sta facendo “Satan” (l’avversario) e per conto di chi:
non sta tentando un virtuoso per allontanarlo dalla divinità bensì,
per conto della
divinità stessa, sta impedendo ad un certo Bal’am di gettare una
maledizione sul popolo di Israele.
Sta
dunque lavorando per
la divinità e non contro di essa.
Ecco
fatto: primi segnali che quanto si legge sulla tanto sbandierata
“ribellione” e sulla pretesa che il Satan sia “avversario della
divinità” è niente più che una boiata alimentata dall’influenza
dualistica zoroastriana.
Colpo
di grazia alla presunta “assoluta bontà” del divino la si trova
in un versetto del libro di Isaia (45,7) dove tale divinità dice
chiaramente di sé: “Io formo la luce e creo l’oscurità, io
faccio la pace e creo il male:
io sono Dio e causo tutte queste cose.”
Inutile
dire a questo punto che forse
ci siamo persi qualche passaggio quando abbiamo creduto ciecamente
alle storie narrate dai parrini attorno al fuoco.
Forse
– e dico forse – i
concetti che abbiamo della divinità in sé, del bene e del male,
sono leggermente errati e forse – dico sempre forse
– andrebbero riconsiderati alla luce della ragione logica piuttosto
che alle tenebrose elucubrazioni di svariati studiosi tesi solo a
rielaborare idee stantie.
Cm sempre senza fiato... sentirti parlare è una cosa ma leggerti è tt altro! Ti spiace se t kiedo di continuare cn questi post? Magari xò cambia il colore del testo xkè mi ballavano gli okki! ^^ P.S. se potessi postare la tua "difesa a Satana" mi faresti un favorissimo ke c'è gente a cui dv farla assolutamente leggere!! XOXOXO!!
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